Inclusione: dalle agende all’agendo

Parlo nuovamente di inclusione per evidenziare grosse e gravi carenze soprattutto delle istituzioni che dovrebbero insegnare ai più giovani il vivere l’inclusione.

Non c’è preparazione. Nelle scuole i docenti si muovono goffamente a spiegare l’inclusione, l’agenda 2030, il futuro ai giovani senza avere alcuna preparazione per poterlo fare.

Si potrebbe contare sulla sensibilità dei singoli come ultima spiaggia ma è evidente che non è la strada giusta.

L’abbandono deli studenti italiani è a dir poco spaventoso. Lasciamo che migliaia di ragazzi lascino le scuole perché non ce la fanno. Scendere sotto il 10%, obiettivo che aveva posto l’Unione Europea, è ben lontano e si sfiora in alcune regioni di Italia il 20% di abbandoni. Solo 5 regioni scendono sotto il 10%. Siamo ancora al 13% medio livello Italia, e facciamo molto peggio di Francia e Spagna.

I disoccupati con licenza media sono il doppio dei disoccupati con licenza di istruzione superiore, in quadruplo di quelli con laurea.

E il pericolo maggiore è che questi ragazzi che abbandonano gli studi sono a forte rischio. Non c’è un sistema pronto ad accoglierli né con lavori dignitosi, né con altro.

Cosa facciamo? Continuiamo a registrare questi fenomeni oppure rinnoviamo la scuola, istruiamo i docenti, passiamo dalle numerose e straripanti agende dei convegni e dei programmi all’azione?

Un solo ragazzo che abbandona la scuola è un delitto per l’intera società!

Pubblicità

Inclusione: che non resti uno slogan!

Ho imparato quale sia l’importanza dell’inclusione in età adulta. Ho compreso quanto sia importante ed indispensabile entrando in contatto con la scuola. Ma spesso mi sembra resti uno slogan e non sia un comportamento effettivo. Che tutti nei propri ruoli imparino il diritto di chi è più debole di avere sotto i piedi uno sgabello che li elevi alla stessa altezza degli altri.

È un dovere soprattutto di chi ha un ruolo di insegnante esercitare attivamente e quotidianamente ogni comportamento che agevoli l’inclusione.

Le scuole selettive hanno un atteggiamento antico e superato. Causano l’allontanamento di tanti studenti dalle classi. Insegnano a chi ha più capacità che è giusto lasciare indietro chi ne ha meno.

Inclusione significa dare a tutti la possibilità di crescita umana: inclusione è un dovere per garantire la migliore società possibile.

Il ruolo della scuola

Da studente ho vissuto e mi hanno fatto vivere la scuola soprattutto come istituzione da frequentare obbligatoriamente (la scuola dell’obbligo) presso la quale dovevo recarmi e mi recavo, per studiare materie predefinite fin nei dettagli ma soprattutto per venir valutato e giudicato per quello che sapevo e per quanto fossi bravo e veloce ad imparare quello che non sapevo.

La scuola per me non è mai stata una istituzione piacevole né amichevole. Mi provocava tensioni, preoccupazioni, incomprensione, delusioni.

Oggi che ho più anni e convinzioni più solide, dopo aver vissuto in questi ultimi anni la scuola come padre di uno studente, ed averla guardata da un altro punto di osservazione, penso che la scuola deve essere e purtroppo non sempre è, l’istituzione pur sempre obbligatoria ma accogliente e più attenta alle esigenze formative degli alunni, garantita con insegnanti preparati adeguatamente, innamorati della propria missione, per tutti gli aspetti che devono gestire, a attenta disposizione di ogni singolo studente perché lo stesso possa individuare ed imparare ciò che a lui più interessa conoscere ed approfondire.

La valutazione dello studente è in primis l’immagine specchiata del voto che l’insegnante ha meritato nel fornire il servizio richiesto ed a valorizzare le capacità di ciascuno studente.

L’insufficienza dello studente è anche l’insufficienza del professore.

Portare lo studente all’eccellenza non vuol dire portare tutti ad eccellere, significa portare ciascuno studente per quanto nelle proprie potenzialità, ad esprimersi nella maniera migliore. Molto più difficile questa missione rispetto a quella dei miei tempi. Molto più nobile.

L’inclusione è e deve essere il cardine imprescindibile del sistema scolastico. E parimenti lo è la personalizzazione dell’insegnamento che non può prescindere dalla storia unica del singolo studente.

È responsabilità della scuola, dei presidi, dei professori garantire che nessun ragazzo si perda per strada e che si esprima al massimo delle proprie capacità. È responsabilità della scuola non giudicare ma che anche chi non è dotato di grande capacità nel percorrere percorsi standard (che non dovrebbero esistere), prosegua il proprio percorso unico e straordinario al meglio delle sue peculiarità. Il che non è meno dignitoso né meno prezioso (anzi) delle migliori (in senso classico ed obsoleto) carriere scolastiche.

È responsabilità della scuola portare i ragazzi a proseguire i propri approfondimenti e studi fin dove e quanto vorranno fare. E’ nostra responsabilità pretendere che la scuola possa preparare i nostri ragazzi a costruire un mondo migliore, basato sulla fratellanza, sulla condivisione e sull’inclusione, sull’umanità non sul nozionismo.

Insegnanti preparati che non si sentano protagonisti ma siano al servizio della scuola e sentano la missione dell’insegnamento. Che siano responsabili e possano capire gli studenti singolarmente nelle loro peculiarità ed unicità.

Che creino classi unite e accoglienti, dove la solidarietà e la partecipazione siano alla base formativa di futuri uomini e donne.

Che portino al sorriso ed alla gioia che si può provare nell’imparare cose nuove.

Che accompagnino nella crescita dando consulenza ed appoggio. Perché il futuro, come anche il presente, è già dei ragazzi e degli studenti.

Cambio tutto anzi no.

Anche questo periodo di vacanza sta passando velocemente. E subito dopo io tornerò alla vita di tutti i giorni. E passeranno gli anni e tutti gli anni le vacanze di Natale. E così passerà la mia vita.

Ed ogni Natale penso che qualcosa vorrei e dovrei cambiarla: da anno nuovo farò, dirò, non farò più…..è il mio pensiero. Ma poi tutto o quasi procede in continuità. Forse perché sto bene così. O forse perché non sono capace di cambiare alcuna cosa. Non voglio pensare, anzi sono sicuro, che non cambio nulla perché non c’è la possibilità di farlo.

Ma anche quest’anno il mio proposito è quello comune e banale di tutti gli anni: qualcosa deve cambiare. Per migliorare e utilizzare meglio il tempo che passa.

Ma forse il senso della vita non è necessariamente nel cambiare ma almeno nel desiderio di farlo. Lo slancio che porterebbe a cambiare, aiuta ad andare avanti, a tendere a qualcosa di meglio e sicuramente limita almeno il rischio di lasciarsi andare.

Ed ora anche la pandemia che soffia contro ogni spinta al cambiamento personale ed anzi porta a sperare che si possa mantenere quanto si ha.

Ma quest’anno qualcosa cambierò. O forse no.

La lettera del professor Carmina

Mi sono commosso nel leggere la lettera del professor Carmina, che per questo voglio pubblicare, scomparso per un incidente in Sicilia. Non sono stato un suo allievo e oggi vorrei esserlo stato. Un messaggio forte ai giovani, ma non solo per loro. Per tutti noi. Una lettera dalla quale emerge la passione civile e la voglia di trasmetterla. Un commiato dalla scuola che da poche ore si è trasformato purtroppo in un triste commiato dalla vita.

“Ho appena chiuso il registro di classe. Per l’ultima volta. In attesa che la campanella liberatoria li faccia sciamare verso le vacanze, mi ritrovo a guardare i ragazzi che ho davanti. E, come in un fantasioso caleidoscopio, dietro i loro volti ne scorgo altri, tantissimi, centinaia, tutti quelli che ho incrociato in questi ultimi miei 43 anni.

Di parecchi rammento tutto, anche i sorrisi, le battute, i gesti di disappunto, il modo di giustificarsi, di confidarsi, di comunicare gioie e dolori, di altri, molti in verità, solo il viso o il nome. Con alcuni persistono, vivi, rapporti amichevoli, ma il trascorrere del tempo e la lontananza hanno affievolito o interrotto, ahimè, quelli con tantissimi altri.

Sono arrivato al capolinea ed il magone più lancinante sta non tanto nell’essere iscritto di diritto al club degli anziani, quanto nel separarmi da questi ragazzi. A tutti credo aver dato tutto quello che ho potuto, ma credo anche di avere ricevuto di più, molto di più.

Vorrei salutarvi tutti, quelli che incontro per strada, quelli che mi siete amici sui social, e, tramite voi, anche tutti gli altri, tutti, ed abbracciarvi ovunque voi siate.

Vorrei che sapeste che una delle mie felicità consiste nel sentirmi ricordato; una delle mie gioie è sapervi affermati nella vita; una delle mie soddisfazioni la coscienza e la consapevolezza di avere tentato di insegnarvi che la vita non è un gratta e vinci: la vita si abbranca, si azzanna, si conquista.

Ho imparato qualcosa da ciascuno di voi, e da tutti la gioia di vivere, la vitalità, il dinamismo, l’entusiasmo, la voglia di lottare.

Gli anni del liceo, per quanto belli, non sempre sono felici né facili, specialmente quando avete dovuto fare i conti con un prof. che certe mattine raggiungeva livelli eccelsi di scontrosità e di asprezza, insomma …. rompeva alla grande. Ma lo faceva di proposito, nel tentativo di spianarvi la strada, evidenziandone ostacoli e difficoltà.

Vi chiedo scusa se qualche volta non ho prestato il giusto ascolto, se non sono riuscito a stabilire la giusta empatia, se ho giudicato solo le apparenze, se ho deluso le aspettative, se ho dato più valore ai risultati e trascurato il percorso ed i progressi, se, in una parola, non sono stato all’altezza delle vostre aspettative e non sono riuscito a farvi percepire che per me siete stati e siete importanti, perché avete costituito la mia seconda famiglia.

Un’ultima raccomandazione, mentre il mio pullman si sta fermando:

usate le parole che vi ho insegnato per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha; non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete oggi: infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non “adattatevi”, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa: voi non siete il futuro, siete il presente.

Vi prego: non siate mai indifferenti, non abbiate paura di rischiare per non sbagliare, non state tutto il santo giorno incollati a cazzeggiare con l’iPhone. Leggete, invece, viaggiate, siate curiosi (rammentate il coniglio del mondo di sofia?).

Io ho fatto, o meglio, ho cercato di fare la mia parte, ora tocca a voi.

Le nostre strade si dividono, ma ricordate che avete fatto parte del mio vissuto, della mia storia e, quindi, della mia vita. Per questo, anche ora che siete grandi, per un consiglio, per una delusione, o semplicemente per una risata, un ricordo o un saluto, io ci sono e ci sarò. Sapete dove trovarmi.

Ecco. Il pullman è arrivato. Io mi fermo qui. A voi, buon viaggio”.

Professor Pietro Carmina

Staffetta dell’esistenza

Siamo come gli atleti che partecipano ad una staffetta: la staffetta dell’esistenza. Partecipiamo come singoli concorrenti nel far sì che l’esistenza dell’uomo possa giungere ad un traguardo lontanissimo nel migliore dei modi. I nostri padri ci hanno passato il testimone e noi lo passiamo ai nostri figli. E la nostra corsa dura per la durata della nostra vita, un istante brevissimo di questa staffetta dell’esistenza.

Non ci sono scusanti; ciascuno deve vivere e fare tutto quanto possibile affinché il proprio contributo allo sviluppo dell’umanità sia massimo. Non importa se saremo ricordati o se nessuno si ricorderà di noi. Il nostro valore è legato a quanto riusciamo a contribuire secondo le nostre capacità al miglioramento della vita. Ed il parametro è strettamente ed unicamente legato alle nostre possibilità. Non è detto che chi ha più capacità possa donare più di chi, nei propri limiti, dona tutto se stesso a questa corsa. Un piccolo passo da parte di chi di più non poteva dare è di maggior valore di cento passi di chi ne poteva fare mille. E’ chi non partecipa che non è nel giusto. E’ chi non basa la propria esistenza a far sì che si progredisca globalmente a creare una società giusta ed equilibrata. L’Agenda 2030 va in questa direzione ma non perché ci siamo tutti improvvisamente rendenti ma perché si è capito che è l’unica strada possibile.

Dobbiamo insegnare ai nostri figlio a correre verso una società prima di tutto senza fame, senza guerra, senza sofferenza. Si dovrebbe creare un telegiornale basato sulle notizie del mondo non locali. Ed allora avrebbero priorità le morti dei bambini affamati, dei bambini morti in guerra, delle persone torturate, oppresse, dei vaccini che mancano nei paesi poveri. E tali notizie dovrebbero muovere le coscienze a che non accadano più morti di innocenti, sofferenze dei nostri fratelli, ingiustizie e discriminazioni. Concentriamoci nella nostra corsa sulle cose importanti e non permettiamo a chi non ce le fa vedere e ci detta modelli strettamente consumistici di rendere le nostre esistenze meri passaggi di forme inermi e cieche che non vedono quello che succede, che non agiscono a che l’esistenza continui a correre per migliorare.

Colpevole chi viene lasciato

Non sono rari i casi in cui chi smette di amare non lo dichiara al partner che, ancora innamorato ma intrappolato in una storia ormai privata di amore e di significati positivi nei suoi confronti, viene portato a terminare una storia a dir poco sbiadita, rimasta ormai vuota e spesso piena di sofferenze. Ed è, in questi casi, proprio colui che alla fine viene lasciato e che in apparenza potrebbe sembrare la vittima del finito amore, il vero responsabile della sofferenza oltre che della fine della storia, colui che alla coppia genera e ha generato sofferenze e dolori. Chi non ama più lo deve dire

Ci sono persone che, dopo i primi entusiasmi per una storia nuova (che spesso ancora storia non è ma è solo un possibile inizio di una storia) o anche durante una storia matura che magari non si è sviluppata secondo le proprie aspettative, si accorgono di non trovare nella relazione che stanno vivendo tutto quanto hanno immaginato ed invece di dichiarare con onestà questa triste ma umana e frequente scoperta e condizione di disagio, iniziano a denigrare quotidianamente il compagno o la compagna, a disprezzarne i comportamenti, a sottolinearne ogni possibile debolezza, ad evidenziare ogni fallimento di coppia o del compagno, piccolo o grande che sia, a porsi costantemente in posizioni di antitesi, ad incolparlo di ogni insuccesso, di coppia ed addirittura, proprio.

Ci sono persone che sono bravissime a scaricare le responsabilità delle proprie difficoltà e dei propri limiti su chi è loro accanto. Ci sono persone che non hanno la forza di amare ma pretendono di essere amati; amare, ce lo hanno insegnato e ce lo ricordano ogni giorno, non è mai semplicemente ricevere. Amare è umiltà, è riconoscere i propri limiti e dichiararli, è lavorarci per superarli, è sentire di volersi fare carico dei problemi dell’altro per aiutarlo a risolverli, è essere onesti, trasparenti ed aperti. L’amore inoltre deve essere alimentato, non è gratuito o dovuto, deve essere rigenerato, non è fatto di propositi ma di azioni continue concrete a favore dell’altro e della coppia.

E in tale circostanze, si arriva spesso alla dichiarazione della fine di una storia per iniziativa ma non certo per colpa, proprio di quel compagno che è stato denigrato, incolpato e spesso umiliato. Di quella persona che per stanchezza si sottrae, a prescindere dal proprio sentimento che probabilmente è scemato perché è stato logorato a lungo, dalla persona che da tempo non lo ama.

Allora, per non arrivare a questa inutile e triste sofferenza, ci vuole, da parte di chi non ama il compagno o la compagna, la forza e l’onestà di dichiarare il “mancato amore”. E nel contempo parimenti occorre, a prescindere dai proprio sentimenti, la forza e l’onestà di chi riceve tale dichiarazione, di rispettarla senza rancore ed anzi di accettarla con gratitudine per l’onestà dimostrata dal partner. Nessuna fine di una storia giustifica violenza né psicologica né tanto meno fisica.

Per amore si lascia andar via il compagno che non si trova più a suo agio nella relazione di coppia.

Tutte le storie dovrebbero finire per iniziativa onesta di chi si accorge e sente di non amare il compagno. Una relazione è tanto complessa, nell’inizio, nella gestione, nella fine.

Inclusione e valori di oggi

L’inclusione è uno dei valori sui quali la società moderna punta molto; è un valore relativamente nuovo e non comune a tutte le culture ed i pensieri. L’inclusione non è proprio coerente con altri valori della società moderna: società fatta di professionisti e persone che si avvinghiano su linkedin per dichiarare successi e promozioni, nuovi incarichi e target raggiunti, mercati conquistati e vette scalate.

L’inclusione è superare il concetto di diverso e diventare amalgama, coinvolgere nel successo tutte le persone che appartengono ad un progetto, non solo i vertici; condividere le informazioni e le strategie, gli obiettivi e i piani, farli insieme.

Bla bla bla, sulla riduzione delle emissioni, sulla protezione dell’ambiente, sull’inclusione, sulla solidarietà, sull’agenda 2030, ma quanto effettivamente poi agiamo tali valori? Quanto noi come persone, le società di profitto, le istituzioni?

Il rischio che vedo è che diventino slogan dettati da chi ha deciso che se non ne fai dei valori, non ricevi finanziamenti; e ciò non per amore di tali valori ma per limitare ed evitare i rischi che sorgerebbero a fronte di una ricchezza sempre più in mano di pochi, accentrata.

Ebbene a me piacerebbe invece che tali valori fossero nati dalle coscienze di ognuno, sicuro che nelle coscienze di ognuno tali valori ci siano. Abbiamo visto nella storia industriali illuminati che hanno davvero non fatto propri ma espresso nell’esercizio di tutti i giorni tali valori, non li hanno proclamati ma messi in pratica.

Oggi temo e sarei felice di aver torto che tali valori non siano davvero parte della vita di ciascuno, delle aziende e delle istituzioni ma ancora una volta rappresentino elementi necessari per ottenere vantaggi e profitti. Ben vengano anche così, perché sono importanti. Purché vengano e non restino solamente proclami ancor più pericolosi della situazione in cui puramente non si esercitavano.

Incomunicabilita’

Non tutti sono capaci di intrattenere relazioni. A me non risulta facile. Non è immediato trovare qualcuno col quale intrattenersi con piacere, con piacere confrontarsi. Siamo una infinita’ in questo mondo eppure spesso ci sentiamo soli.

Incomunicabilità tra le persone, con le persone, con la compagna, il compagno, con i figli, con i genitori, tra i genitori, con il vicino di casa, con il signore o la signora che passa per strada. Forse anche con noi stessi.

Ci preoccupiamo spesso del contrario, del diritto alla riservatezza, alla privacy, al silenzio, a non essere disturbati e non ci preoccupiamo mai dell’incomunicabilità tra le persone. Fa più rumore il silenzio intorno me di mille voci che mi chiamano e mi cercano.

Serve un maggior rispetto dell’altro, della diversità, una totale consapevolezza che è importante ascoltare e rispettare chi si ha di fronte. L’umiltà è il più grande dono che una persona può aver ricevuto: essere umili e capaci di ascoltare per imparare nella sicurezza che quando parleremo a nostra volta saremo ascoltati.

Ascoltare con attenzione e convinzione di voler cogliere ogni sfumatura di quanto si potrà udire. Ascoltare il dolore altrui, le idee, le gioie. Chiudere le porte a chi non sa o non vuole ascoltare è necessario ma genera dolore perché si perdono delle occasioni.

Riconoscere l’altro nella sua storia, nelle sue forze e nelle sue debolezze. Inclusione vera e non di facciata. Inclusione sostanziale e dimostrabile. Diritto alla gioia e alla vita ancor più che alla privacy ed al silenzio. Oggi la nostra umanità è malata di incomunicabilità ancor più di altro.

Cambiare nell’approccio e avere la capacità di intrattenere rapporti interessandosi dell’altro e rispettandolo, certi che saremo anche noi rispettati ed ascoltati.

Diritto alla comunicazione ancor prima che diritto al silenzio. Questo distinguerebbe una società moderna. Garantire il diritto alla comunicazione condannando chi non è capace di ascoltare.

Rigenerare

Ogni cosa che non si alimenta, decade. Non c’è possibilità alcuna di sopravvivenza senza alimentazione. L’amicizia che non viene alimentata è destinata ad appassire come i fiori quando non sono annaffiati.

L’amore non ha alcun destino favorevole se non viene reinventato e rigenerato di continuo. Ogni tipo di relazione necessita di essere rigenerata ed alimentata.

Mani aperte come il cuore generano i rapporti. I pugni chiusi portano solitudini. E di solitudine si soffre. Gli abbracci sinceri generano calore, le strette di mano forti portano fiducia. E non si deve mai rinunciare a ritrovarsi, a incontrarsi di nuovo magari su strade diverse per poi percorrerle insieme.

Non portare rancore a nessuno: il rancore genera distanza. Tendere la mano ed ascoltare. Rigenerare se stessi ed i rapporti. Avere speranza e fiducia nelle relazioni.

Abbracciare le differenze e le culture. Includere chi è debole. Essere solidali e giusti. E quando si hanno dubbi, rigenerare la fiducia e ripartire.